“Sarò un vecchio romantico, come qualcuno ogni tanto puntualmente mi ricorda, ma la città è quella fatta dagli uomini che vivono, lavorano, si ritrovano, si divertono, soffrono anche, assieme in un certo luogo e lo sentono, lo fanno proprio, alla fine lo amano, disposti quanto più è bello e accogliente, a dividerlo, anche con un giustificato orgoglio, con chiunque vi si insedi provenendo da qualsiasi altra città come dal paese più lontano.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sergio Barizza

 

Il paesaggio urbano di Mestre



Anche solo osservando superficialmente una qualsiasi carta geografica si può cogliere la chiave interpretativa della storia di Mestre.
Costituisce infatti la ‘porta’ di Venezia, è l’ultimo centro abitato per chi, dalla terraferma, voglia recarsi in laguna.
Anche per sottolineare questo particolare rapporto, un paio di decenni fa fu coniato lo slogan ‘Mestre città d’acqua’.
Mestre finì sotto l’orbita amministrativa della Serenissima Repubblica di Venezia il 29 settembre 1317 (festa del patrono San Michele) e una cinquantina d’anni dopo il governo della Serenissima fece scavare un canale (la fossa Gradeniga, poi semplicemente Canal Salso) che ne garantisse un collegamento diretto tramite barca con Venezia creando, si potrebbe ben dire, per diversi secoli un porto fluviale in terraferma (si tenga presente che il ponte ferroviario è stato inaugurato l’undici gennaio 1846 e quello autostradale il 25 aprile 1933).


Sulla testata del canale (presto denominata ‘Piazza Barche’) continuarono ad affollarsi merci e passeggeri e di questo traffico avrebbe vissuto per secoli una parte di Mestre. Era in particolare la Mestre dei barcaioli: proprietari di barche (gondole, caorline, grosse barche da trasporto denominate proprio ‘barche da Mestre’), ma spesso anche semplici ‘sbezzaroli’ (che andavano a remare per qualche spicciolo e vivevano solo della forza delle proprie braccia). Era una Mestre anche geograficamente ben delimitata, ristretta alle semplici case con ampi magazzini che si affacciavano sulle rive del canale e a quel quartiere, a ridosso della riva sinistra, oggi comunemente conosciuto come Altobello. Ma era comunque una parte della città.
Ce n’era un’altra, statisticamente più numerosa, che viveva di commercio, servizi (Mestre era una città notoriamente strapiena di osterie e locande) agricoltura e allevamento del bestiame nella fertile campagna circostante che come ‘centro’ faceva riferimento a Piazza Maggiore.
Immaginando un ideale viaggio in barca (rigorosamente a remi) da Venezia a Mestre, attraversata la laguna, il Canal Salso costeggia oggi il Parco di San Giuliano, sulla cui punta una elegante palazzina bianca, con un porticato di colonne dal capitello ionico, costruita all’inizio dell’ottocento, sta a ricordare che lì correva la linea daziaria che divideva i comuni di Venezia e Mestre (istituiti sotto il Governo francese nel 1806 e unificati nel 1926) e lì davanti tutte le barche dovevano fermarsi per pagare la tassa comunale.
Poco più oltre, a cavallo della linea di conterminazione lagunare (il lungo argine voluto dal Governo veneziano per separare la ‘laguna viva’ dalla terraferma, la cui costruzione terminò nel 1792) il canale costeggia gli spalti di Forte Marghera, voluto dai francesi all’inizio dell’ottocento come ultimo baluardo contro qualsiasi esercito che avesse, in futuro, voluto marciare alla conquista di Venezia via terra.
Poi il Canale prende una direzione rettilinea che termina al centro dell’abitato di Mestre, in una piazza comunemente conosciuta come ‘Piazza Barche’ ma il cui nome ufficiale è ‘Piazza XXVII Ottobre’, a ricordo della battaglia risorgimentale che vi si svolse nei dintorni, il 27 ottobre 1848, tra l’esercito repubblicano di Daniele Manin e quello austriaco. A ricordo di questo evento, il 4 aprile 1886, venne eretta una colonna sormontata da un leone alato, che fu per tantissimi anni l’unico monumento pubblico presente in Mestre (rimossa per la collocazione della linea tranviaria è ancora in attesa di esservi ricollocata).
Purtroppo della piazza, che fu punto di raccordo con Venezia per secoli, oggi poco rimane.
L’ultimo chilometro di canale è stato interrato tra gli anni trenta e cinquanta del secolo appena trascorso (vi si può benissimo vedere la sua ‘impronta’ dalla terrazza del Centro commerciale ‘Le Barche’), della lunga linea di case che lo contornava su entrambi i lati, popolata di osterie e magazzini, pochissimo è rimasto: la cosiddetta ‘casa dei Barcaroli’ sul lato sinistro (guardando la laguna) e alcune piccole costruzioni sul lato destro.
Più notevoli, su entrambi i lati, sono le testimonianze di archeologia industriale.
Dopo infatti che il Canale cominciò progressivamente a perdere la sua funzione secolare, con l’avvento della ferrovia e la costruzione del ponte translagunare (1846), le sue rive ospitarono la ‘zona industriale di Mestre’ che, a sua volta, sarebbe andata via via inaridendosi con la costruzione di quella portuale/industriale di Marghera, a iniziare dal 1919.
In una ideale passeggiata da Piazza Barche verso Punta San Giuliano, lì dove riappare l’acqua del canale, dopo il lungo tratto interrato, sulla destra alcuni ‘magazzini’, dal prospetto in cotto, ricordano che lì era presente una secolare fornace, ricordata col nome del più noto proprietario ottocentesco, Giuseppe Da Re, il quale aveva lì pure dei capienti magazzini per conservare il raccolto proveniente dalle campagne che gestiva nei dintorni di Mestre (lo ricordano alcuni tondi con testa di bue presenti sulle facciate).
Sul lato opposto campeggia la lunga facciata della fabbrica di scope di Hermann Krull (1908), oggi sede del tribunale minorile, poco più avanti, accanto alla moderna sede dell’Italgas, una lineare palazzina, con due trifore ad arco a tutto sesto e un timpano rettangolare, ricorda la prima sede della Società mestrina del gas (1908), subito dopo si erge il triplice capannone della fabbrica di oli lubrificanti di Federico Matter (1883), oggi sede della Camera di Commercio e, un po’ all’interno, all’incrocio con Via Sansovino, la possente struttura della prima cabina di trasformazione della Sade del conte Giuseppe Volpi (1907).
Sul lato opposto, che oggi si può raggiungere direttamente grazie al nuovo ponte, era sorta una appendice del porto di Venezia: a sinistra si possono ancora vedere i caratteristici magazzini del cotone (1908), a destra le tettoie della Carbonifera (1908).
Di Piazza Barche si servivano pure patrizi e nobili veneziani. Vi arrivavano con ‘le gondole di casada’ prima di sciamare verso le numerose e sfarzose ville dell’entroterra. Di ciò rimane un segno profondo a Mestre. Per allietare i loro frequenti trasferimenti con qualche piacevole intermezzo, fu infatti costruito da Almerigo Balbi un teatro (1778) su disegno di Bernardino Maccaruzzi, a due passi dalla testata del Canale. Un gioiellino che fu completamente smantellato nel 1811 perché, dopo la caduta della Repubblica, nessuno più andava teatro e il proprietario non voleva pagare le tasse senza ricavare alcunché. Fu salvato solo l’atrio, trasformato in casa d’abitazione: la sua facciata è ancora oggi visibile (al pianterreno infatti si apre, non a caso, la ‘Galleria del Teatro Vecchio’), accanto all’hotel Venezia, ch’era in origine la stazione di posta per cavalli e carrozze per favorire l’interconnessione dei trasporti.
Delle ville, che numerose ancora oggi punteggiano la campagna attorno a Mestre, sulla direttrice per Treviso lungo il Terraglio, verso Padova lungo la Riviera del Brenta o nella vicina Carpenedo lungo Via Trezzo, due sono presenti nell’area centrale, entrambi risalenti alla prima metà del settecento: villa Erizzo-Bianchini, in Piazzale Donatori di Sangue, con una caratteristica facciata abbellita da due torricelle cilindriche e da due serliane ai lati, che immettevano nel retrostante parco che si estendeva fino ai Bottenighi (oggi Marghera) e la più classica, tozza e squadrata, villa Querini lungo Via Circonvallazione.
Teatro e ville fecero affermare a Carlo Goldoni che Mestre era “una piccola Versailles”.
Piazza Ferretto (per lunghi secoli semplicemente ‘Piazza Maggiore’) era la piazza del mercato, collegata con Piazza Barche da una strada denominata ‘Borgo delle Monache’ (oggi via Poerio) perché vi prospettava un cinquecentesco monastero di suore benedettine (poi distretto militare ora in procinto di diventare sede del museo cittadino) con relativa chiesa (oggi sede del Centro culturale Santa Maria delle Grazie), mentre un monastero maschile di frati Cappuccini, da cui ne deriva il nome, si trovava all’inizio della strada per Padova.


Piazza Maggiore, a forma di quadrilatero irregolare, con il lato breve più largo a nord, dove si erge la torre dell’Orologio, e quello più corto a sud su cui prospetta la facciata del duomo, percorsa centralmente da una strada a ciottoli, cintata da portici, attorniata da botteghe, osterie e magazzini presentava l’ aspetto comune a molte cittadine venete.
Nei primi due decenni del novecento una emergente borghesia commerciale e industriale cercò di darle un tocco di grande città ricostruendo praticamente tutto il lato meridionale, dove degli eleganti palazzi ne contornano lo sbocco su Via Poerio e Via Rosa, un paio dei quali sorreggono una galleria in vetro e ferro, a somiglianza di Milano o Napoli, che porta al nuovo teatro, orgogliosamente denominato Toniolo, dal nome del costruttore (1913).

Contemporaneamente, nell’angolo opposto sul lato settentrionale, Vittorio Furlan costruiva il cinema Excelsior, dalla facciata liberty, con affreschi di Alessandro Pomi inneggianti alle conquiste della modernità e fanali in ferro battuto del maestro Umberto Bellotto, che avrebbe di lì a poco (1915) eretto anche il chiosco per la vendita di fiori dei fratelli Cianchi, sul fianco del duomo, e costruito la cancellata che rinchiude l’angolo un tempo destinato a cimitero.


Il duomo di San Lorenzo, opera dell’architetto Bernardino Maccaruzzi (lo stesso del teatro Balbi) fu costruito nel 1805 e consacrato solo nel 1830.
Sono perciò più antiche la chiesa di San Girolamo, alle spalle del Municipio, risalente al XIII secolo e officiata a lungo dai padri Serviti e quella di San Rocco, alla metà dell’omonimo borgo che costeggiava la linea delle mura (oggi via Manin) del XV secolo, officiata dai frati minori conventuali. Sorge, il duomo, sull’area di una chiesa precedente, demolita perché ritenuta troppo piccola dalla quale proviene la pala dell’altare maggiore: La Vergine Maria tra gli angeli e i santi Lorenzo, Michele e Vincenzo opera di Ludovico Toeput detto il Pozzoserrato (1593) e conserva cinque altari, fra cui il maggiore, provenienti dalla vicina chiesa delle Grazie dopo che fu demanializzata e sconsacrata.
Lungo il suo fianco meridionale si trova la Scuola dei Battuti, palazzetto dell’inizio del trecento che conserva, sul lato prospiciente Via Poerio, una elegante sequenza di finestre gotiche e tracce di affreschi. Risulta purtroppo oscurato e quasi schiacciato da un palazzo costruito nel 1925 come sede di una banca.
La Confraternita della Scuola dei Battuti eresse, sempre nei primi anni del trecento, un ‘ospizio’ per i cittadini poveri (poi divenuto Casa di Ricovero per orfani e anziani) fuori delle mura di Mestre, all’inizio della strada per Treviso, su un terreno donato nel 1314 da una nobile di nome Mabilia. Alla metà dell’attuale Via Torre Belfredo, la Casa di Riposo, ora ufficialmente ‘Antica Scuola dei Battuti’, ha voluto, qualche anno fa, ripristinare l’antico nome e legare quello della donatrice al proprio teatro, per riannodare i fili della storia, che gli studiosi possono anche ripercorrere grazie al preziosissimo Archivio Storico conservato all’interno dell’istituto.
Delle mura che i viandanti provenienti da Treviso o Castelfranco si trovavano davanti poco oltre l’Ospizio ben poco è rimasto: la grande porta con la ‘torre di Belfredo’ è stata completamente demolita nel 1876, sulla destra qualche resto di mura fa ancora da sfondo al giardino pubblico, sulla sinistra è ben visibile invece un ottagonale torrione d’angolo, dalla base in pietra d’Istria, proprio di fronte all’attuale ingresso della Casa di Riposo in Via Spalti (anche in questo caso la toponomastica evoca la realtà storica).
In effetti, dalle testimonianze conservate, quella delle mura di Mestre è una storia alquanto problematica: la costruzione - iniziata nella seconda metà del trecento dopo ch’era stato abbandonato un precedente sito fortificato localizzato nell’area dove ora sorge l’ospedale Umberto I - procedeva a rilento per la mancanza di fondi finché Mestre non venne saccheggiata, incendiata e quasi completamente distrutta dalle armate della lega di Cambrai nel 1513.
Il veloce progredire della forza di fuoco delle armi da guerra sconsigliò presto dal riprenderne la ricostruzione. Ne è sicuro segnale il fatto che già alla fine del cinquecento, sull’unica torre rimasta, fosse posizionato un orologio, ‘convertendola’ di fatto in torre civica.
Del resto quella torre non era nata contestualmente alle mura ma era, con ogni probabilità, una costruzione precedente (risalente presumibilmente all’inizio del XII secolo), sorta come casa-torre della potente famiglia dei Collalto a controllo del traffico fluviale verso la laguna (non c’era ancora il Canal Salso) lungo il corso del Marzenego (che ancora oggi attraversa Mestre, ma le cui acque sono spesso invisibili causa la copertura effettuate negli ultimi decenni per favorire l’igiene e la mobilità). Fu poi inglobata nella cinta muraria quando questa cominciò faticosamente a crescere e, all’inizio dell’ottocento, ormai divenuta a tutti gli effetti torre civica, per essere abbellita vi fu pure apposta una merlatura ghibellina mentre per renderla più funzionale vi fu collocata, sul tetto, una campana a cielo aperto che potesse far risuonare le ore il più lontano possibile
La ‘città fortificata’ di Mestre (comunemente conosciuta come ‘castello’) era assai piccola: si sviluppava praticamente a T lungo due assi stradali il primo che dalla porta-torre di Belfredo andava fino alla porta Altinate (alla fine dell’attuale Via Caneve), il secondo, ortogonale a questo, che passando per la torre dell’Orologio immetteva in Piazza Maggiore (luogo principe del mercato) e permetteva poi di imbarcarsi per Venezia. Le case che prospettano su queste tre strade (il primo pezzo di Via Torre Belfredo, Via Caneve e Via Palazzo), nonostante forti manomissioni e deturpanti nuove costruzioni del secondo dopoguerra (una parte venne pure demolita nel 1882 per tracciare Viale Garibaldi, la strada più signorile di Mestre che collega il centro con Carpenedo), conservano ancora tratti ben identificabili di semplici casette con portici che richiamano la tipologia di un piccolo centro veneto, in particolare via Palazzo (l’asse che dall’incrocio va alla torre dell’Orologio) dopo che è stata pedonalizzata e riqualificata qualche anno fa (il progettista, architetto Guido Zordan, ha voluto che il fondo stradale fosse in cotto proprio per evidenziare che lì ci si trova all’interno del castello).
Mentre il duomo ne era sorto al di fuori, le sedi del potere civile ne erano invece giusto al centro, all’incrocio dei due assi stradali. Da un lato il palazzetto della Provvederia (sede dei Provveditori) ricavata grazie al rimaneggiamento cinquecentesco di un torrione medievale (l’aspetto attuale, privo di patina di antichità, è dovuto alla ricostruzione del 1925 dopo che un incendio l’aveva danneggiata e parzialmente distrutta l’anno precedente), dall’altro la casa del Podestà e del Consiglio cittadino, proprietà dei Collalto, che praticamente la donarono alla comunità mestrina nella seconda metà del settecento e che fu profondamente rimaneggiata, ampliata e sopraelevata, nel 1870 , dopo l’annessione al regno d’Italia, come sede del Municipio del Comune di Mestre.


Anche l’unica torre rimasta è stata di recente restaurata: ora tutti si aspettano che, dopo la demolizione dell’incongrua costruzione che le era stata addossata dal lato di Via Palazzo, venga definitivamente sistemata facendo riemergere e riattivando la porta gotica attraverso la quale, un tempo, si passava dal castello alla piazza del mercato.
Questo è il racconto della storia attraverso le tracce lasciate dal tempo sul tessuto urbano di Mestre.
Purtroppo dopo la soppressione del Comune (1926) e l’annessione del territorio a Venezia molte ferite sono state inferte a quel tessuto.
La filosofia che ha a lungo guidato le amministrazioni era legata alla considerazione (1934) che Mestre dovesse “comunque rimanere un sobborgo di Venezia”.
Nacque così l’enorme città periferia o “dormitorio”.
Non credo che per dar corpo a una città o semplicemente rivitalizzarla bastino le ‘torri’ o i grattaceli di vetro e cemento.
Sarò un vecchio romantico, come qualcuno ogni tanto puntualmente mi ricorda, ma la città è quella fatta dagli uomini che vivono, lavorano, si ritrovano, si divertono, soffrono anche, assieme in un certo luogo e lo sentono, lo fanno proprio, alla fine lo amano, disposti quanto più è bello e accogliente, a dividerlo, anche con un giustificato orgoglio, con chiunque vi si insedi provenendo da qualsiasi altra città come dal paese più lontano.
Per questo è molto importante oggi, in primo luogo, salvaguardare e ricostruire il ‘paesaggio urbano’ che la storia ci ha consegnato e rispettarlo: la bellezza e l’armonia di un centro urbano recuperato, segno visibile e riconoscibile del passaggio di generazioni ormai sconosciute di uomini, sono elementi essenziali per la crescita dei nuovi cittadini di Mestre (ben lo sa Venezia centro storico…).